Keith Haring, il pittore americano che con i suoi omini stilizzati ha regalato dignità e vigore alla street art, non aveva dubbi quando parlava della cittadina della Pennsylvania dov’era cresciuto: "Nasci a Kutztown, vai al liceo a Kutztown, rimani a Kutztown, ti sposi con una ragazza di Kutztown, fai dei figli a Kutztown. E alla fine pure loro rimarranno a Kutztown".
Haring lo raccontava divertito, pensando alla sua breve vita spesa a girare gli Stati Uniti in autostop e a frequentare la factory di Andy Wahrol a New York. Eppure Keith non è l’unico figlio della città ad aver conquistato il mondo: dal villaggio sulle sponde del Saucony Creek - il cui nome nella lingua dei nativi Delawere significa “terra dove scorrono due fiumi” - erano partite le prime scarpe che da uno di quei corsi d’acqua prendono il brand e l’idea del logo: un’onda solcata da tre punti. Tre, come i massi che emergono dalle acque nel territorio cittadino.
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La storia delle Saucony parte da lontano
Nel 1898, gli abitanti della cittadina – già allora “destinati" a vivere, sposarsi e morire a Kutztown - avevano ancora in mente gli echi della battaglia di Gettysburg. Erano passati poco più di trent’anni da quando il generale Lee aveva passato il fiume Potomac invadendo la Pennsylvania, nel tentativo vano di far pendere le sorti della guerra dalla parte dell’Unione sudista.
Molti erano partiti per combattere, molti erano morti, qualcuno era tornato diverso da quando era partito. Ora che tutto era finito il dopoguerra stava regalando momenti di prosperità mai visti prima: la vittoria della Confederazione aveva dato forza all’economia della East Coast, che marciava sempre più verso un futuro industriale. Nel clima di ottimismo che attraversava il Paese, quattro giovani imprenditori – William Donmoyer, Thomas Levan, Walter Snyder e Benjamin Reider – decisero di lanciarsi in un settore relativamente nuovo per quei tempi: le calzature per bambini. Un’idea vincente: già nel 1910 dalla fabbrica Saucony – i quattro soci si trovarono subito d’accordo nel chiamarla così - uscivano più di 800 paia di scarpe al giorno.
Hyde e Saucony: due aziende, un unico destino
In quello stesso 1910, nel non lontano Massachusetts, andava crescendo la Hyde, un’azienda destinata ad avere un ruolo decisivo nell’evoluzione delle Saucony. La sua storia è una delle tante che hanno contribuito a creare il mito del “sogno americano”: sul finire del XIX secolo - più o meno negli stessi anni in cui i quattro di Kutzburg progettavano le loro scarpette per l’infanzia - un giovane russo sbarcava a Ellis Island confuso tra migliaia di immigrati europei. Di mestiere faceva il calzolaio e, dimenticato il suo impronunciabile nome di battesimo per un più accessibile Abraham Hyde, si stabilì a Cambridge. Qui prese in affitto il retrobottega di una lavanderia dove, utilizzando il materiale di scarto di una fabbrica di tappeti, abbracciò pure lui un business innovativo per quegli anni duri: cuciva e vendeva pantofole.
Gli affari andarono bene da subito, tanto che Hyde potè lasciare Cambridge per la più dinamica Boston. Qui aprì una catena di negozi e allargò i suoi orizzonti al mondo dello sport, producendo pattini da ghiaccio destinati al tempo libero della élite cittadina. Era solo il primo passo: superata la crisi del ’29, gli stabilimenti di Abraham – che ora si chiamavano Hyde Athletics Industries – cominciarono a produrre scarpe da bowling, pattini a rotelle, calzature per il baseball e ogni tipo di articoli sportivi. Una crescita continua: quando gli Stati Uniti scesero in guerra contro i Paesi dell’Asse, l’azienda si convertì alla produzione di stivali da campo per i soldati; nel 1952 acquisì la Athletic Shoe Company, che non solo fabbricava scarpe da baseball e da football con il marchio Spot-Blit, ma aveva un contratto con la Nasa per le calzature dei primi astronauti. Nel 1968, Hyde si comprò pure la Saucony, che da una decina d’anni si era affacciata sul mercato delle scarpe da corsa con le 7446, un modello in pelle di canguro con sei lunghi chiodi adatti alle piste in terra dell’epoca.
L'ascesa di Saucony nel mondo della corsa
Nei due decenni successivi, i tre marchi dell’impero nato tra Kutztown e Cambridge convissero nei negozi e sui campi sportivi. Ma se le scarpe Spot-Blit erano saldamente ai piedi delle star del football come O.J.Simpson e il marchio sapeva come imporsi tra i campioni della Nba – al punto da arrivare a un passo da un giovanissimo Micheal Jordan - le Saucony si muovevano da underdog nel mondo della corsa: non ancora conosciutissime, ma molto apprezzate dai tecnici. Nel 1977 fu proprio Runner’s World a incoronare il modello Hornet come "miglior scarpa per l’assorbimento dell’impatto del tallone". Sei anni dopo, il neozelandese Rod Dixon vinse la maratona di New York indossando un paio di Saucony, imponendo il marchio all’attenzione di tutto il mondo.
Saucony, da più di un secolo lo stesso logo
Dagli Anni Novanta l’intera produzione fu riunita sotto il marchio Saucony, con lo stesso logo nato quasi un secolo prima: l’onda con i tre punti è rimasta la stessa delle origini, gli unici cambiamenti hanno toccato la scritta con il nome dell’azienda, che dal 2007 è tutta in caratteri minuscoli. Lo scorso anno, per celebrare il 125esimo compleanno dell’azienda, arrivò una mezza sorpresa: il 1° aprile, giorno di scherzi anche in America, l’azienda – entrata dal 2012 nell’orbita del gruppo Wolverine World Wide – diffuse un comunicato su tutti i suoi social.
Poche parole: "Dopo 125 anni di pronuncia sbagliata, abbiamo deciso di cambiare il nostro nome in modo che finalmente possiate dirlo nel modo giusto: Sock-A-Knee". Una battuta certo, ma le scatole di tutti i modelli del 2023 riportano a caratteri cubitali il nickname lanciato per l’anniversario, con una pronuncia che sarebbe stata apprezzata anche da Puma Che Balza, lo storico capo dei nativi Delawere.