Dissero, poi, che una edizione delle Olimpiadi come quella non si era mai vista. Ed era vero, per mille motivi. Il senso di rinascita che l’Italia, come il mondo intero, stava vivendo, i campioni che la nobilitarono, le stelle planetarie che vennero a vederli gareggiare. Tutto quello che accadde in quei giorni fece grande Roma. E la sua grande festa a cinque cerchi, la diciassettesima dell’era moderna.

Era arrivato davvero il boom economico, in quell’anno di grazia 1960. La gente iniziava a stare bene, e le ferite della guerra di quindici anni prima, quelle di “Roma città aperta”, finalmente si rimarginavano. C’era il grande sogno sportivo, da vivere in impianti nuovi e monumentali, ma c’era anche un’umanità profonda e viva, nell’aria. Papa Giovanni XXIII aveva tra le mani la rivoluzione dolce del Concilio Vaticano, dall’altra parte dell’oceano la Casa Bianca si preparava all’entrata di John Fitzgerald Kennedy, i russi e gli americani cominciavano a trasformare il futuro in realtà con la corsa allo spazio.

Speranza e talento

Speranza, e voglia di futuro. Questi ingredienti fecero grande l’Olimpiade romana. Insieme a una concentrazione di talenti indimenticabili. I passi felpati di Wilma Rudolph sulla pista dello Stadio Olimpico, i primi show di un ragazzino chiamato Cassius Clay tra le corde di un ring, la scaltrezza impareggiabile di Armin Hary nella velocità pura, il talento aristocratico di Nino Benvenuti, quelli leggendari di Dawn Fraser e Murray Rose nella piscina dello Stadio Olimpico del nuoto. Il doppio oro di Sante Gaiardoni, che restituì il sorriso al mondo del ciclismo, da poco orfano del mito Fausto Coppi. La corsa a piedi nudi, nella notte illuminata dalle torce, del soldato etiope Abebe Bikila, consacratosi agli dei di maratona a braccia alzate, sotto l’Arco di Costantino. E Rafer Johnson, decathleta, primo alfiere di colore della squadra statunitense nella storia dei Giochi Olimpici.

Gran bella gente, poi, ad entusiasmarsi sugli spalti. Da Lyz Taylor a Gregory Peck, che Roma l’aveva girata in Vespa con Audrey Hepburn sette anni prima, sul set di “Vacanze Romane”; da Charlton Heston a Bing Crosby, fino a Grace Kelly, venuta a sostenere il fratello John, membro della squadra statunitense di canottaggio. Una festa per oltre cinquemila atleti e per un milione e mezzo di spettatori venuti a seguirne dal vivo gli eventi, un record assoluto.

rome olympic games runner abebe bikilq wins the marathon, 1960pinterest
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Berruti, ma non solo

Era l'epoca del villaggio senza cancelli, in cui chiunque, quindi tanta gente comune, poteva entrare e mescolarsi agli atleti ospitati nelle 33 palazzine alte fino a 5 piani tirate su al quartiere Flaminio.

Fu l'Olimpiade di chi tornava alla vita e cancellava definitivamente la guerra (la Germania era già divisa in due, ma si presentò con un'unica squadra, 321 tedeschi dell'est e dell'ovest pronti a salire sul podio sulle note dell'Inno alla Gioia di Beethoven): quasi a volerlo testimoniare ci fu quel volo di colombe nell'Olimpico dopo la semifinale dei 200 metri vinta, a ritmo di primato del mondo, dal grande Livio Berruti, che poi si sarebbe ripetuto in finale conquistando l'oro e facendo impazzire l'Italia intera. Lui invece, al villaggio, si era innamorato, pare ricambiato, della gazzella Wilma Rudolph, che fin da Melbourne 1956 (un bronzo conquistato a 16 anni) correva nello sprint con grazia e leggiadria, nonostante avesse avuto la poliomielite da bambina.

Quelli di Roma furono i giorni dei trionfi (100, 200 e 4x100) di questa ragazza eletta regina del villaggio per la dolcezza e delicatezza che le avevano procurato legioni di ammiratori. Fu l'Olimpiade di Berruti ma non solo, perché venne anche la notte in cui brillò l'astro di Abebe Bikila, poi spentosi precocemente, il maratoneta etiope che correva scalzo ed era un soldato del Negus fino ad allora perfetto sconosciuto. Era anche uno dei soli 12 atleti spediti ben due mesi prima a Roma dall'ex colonia.

Con il suo passo leggero staccò tutti e trionfò a ritmo di miglior prestazione mondiale, arrivando da solo sotto l'Arco di Costantino e guadagnandosi la promozione a tenente. Furono anche i Giochi di un ragazzo di 18 anni già ciarliero, clown del villaggio, convinto non a torto di essere un predestinato. "Quel negretto lo vedo male", vaticinò un giornalista romano durante un match: si sbagliava, il 'negretto' diventò infatti, prima col nome di Cassius Clay, a Roma oro nei mediomassimi; poi, con quello di Muhammad Alì, il Più Grande, atleta del secolo e idolo di tutti i neri del mondo.

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Per lui nel 1960 la sfida più difficile non fu battere gli avversari ma sconfiggere il terrore dell'aereo e riuscire a salire sul volo per Roma. Avrebbe meritato il premio di miglior pugile del torneo olimpico, ma ragioni di geopolitica lo fecero assegnare all'italiano Nino Benvenuti, che peraltro come lui sul ring pungeva come una vespa. A proposito, erano Giochi ecologici 'ante litteram': agli impianti si andava giustappunto in Vespa, spettatori e talvolta atleti. Cosi ci si sentiva tutti Gregory Peck, e, magari avventatamente, si poteva sperare in una vita dolce da Vacanze Romane.