Chi non lo conosce, potrebbe pensare di trovarsi di fronte a uno dei volti nuovi del trail running italiano, complice quel suo aspetto da eterno ragazzino che lo contraddistingue. Eppure, Francesco Puppi, comasco di nascita, 31 anni compiuti a inizio anno, è già un veterano nel mondo internazionale della corsa in montagna. "Da ragazzino la frequentavo con i miei genitori e anche se non facevo gare ero abituato a correrci. Il legame con i sentieri è sempre stato molto intenso e forte. È stata una scelta naturale. La scintilla è scoccata un giorno mentre ero sulle Dolomiti e per caso abbiamo incrociato gli atleti che stavano partecipando alla Dolomiti Skyrace. C’era in testa Kilian, che solo più tardi ho scoperto chi fosse. Appena tornato a casa ho iniziato a informarmi per capire cosa stessero facendo. Avevo 14 anni". E da allora di strada ne ha fatta.

Un oro, un argento e un bronzo individuale ai Mondiali di corsa in montagna di lunghe distanze rispettivamente nel 2017, 2019 e 2016, accompagnati da due ori e un bronzo a squadre; oltre a due argenti a squadre nel format classico nel 2016 e nel 2018. Ultimo atto, lo scorso novembre in Thailandia, con un argento individuale e un oro a squadre sempre ai Mondiali, ma nella specialità short trail.

Perché la scelta della corsa in montagna e non ad esempio dell’ultratrail?

"Perché venendo da pista strada e corsa campestre era l’evoluzione più naturale. Essendo il primo approccio con i sentieri era quello più logico anche da un punto di vita tecnico. Io ho sempre cercato di mettere davanti alle mie scelte sportive la motivazione tecnica. Il mio è un percorso di esplorazione. Adesso mi sto approcciando anche all’ultra. Ma per il tipo di atleta che sono non avrebbe avuto senso iniziare così".

Qual è la caratteristica che ti contraddistingue?
"Sicuramente la resistenza. Credo di essere particolarmente portato a gestire la variabilità dei percorsi e delle condizioni. Sono un atleta abbastanza versatile, anche nel gestire le situazioni inattese e impreviste".

Quando hai capito che avresti potuto fare l’atleta professionista?
"Potrei darti tante risposte. Credo che per il livello a cui correvo, avrei potuto farlo anche 7 o 8 anni fa. Ma nel trail running, soprattutto in Italia, non esistevano ancora le condizioni. Sono professionista dal 2021, dopo la pandemia. Un processo che non è dipeso tanto dalla mia maturazione, ma piuttosto dall’evoluzione che ha avuto tutto l’ambiente e di nuovi rapporti tra atleti e brand".

Quanti chilometri corri alla settimana?
"A regime 160 km suddivisi tra strada, pista e sentieri, in base a quello che devo fare. In estate la preparazione è decisamente più spostata sulla montagna e il trail, in inverno un po’ meno. Grosso modo un allenamento molto simile a quello di un maratoneta, con tanti lunghi, ma anche allenamenti di velocità".

Continui a gareggiare anche su strada. Hai obiettivi anche sull’asfalto?
"Quest’anno, con il mio allenatore Tito Tiberti, abbiamo scelto di gareggiare su strada, ma sempre in funzione di obiettivi trail. In passato, invece, ho voluto proprio provare a raggiungere obiettivi specifici su strada. Credo che sfruttare gare anche su asfalto o i cross sia una strategia che possa poi dare buoni risultati sui sentieri. Sono una buona palestra. Anche se mi piacerebbe riuscire a migliorare il mio primato sulla mezza maratona".

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alice russolo

Cosa rappresenta la montagna per te?
"È un ambiente a cui mi sento particolarmente affine, che offre tante possibilità. Non solo dal punto di vista sportivo, ma soprattutto emotivo. In montagna tutto è molto più lento. C’è spazio per riflettere, per pensare. Mi appassiona tutto quello che outdoor, dallo sci all’arrampicata, al free ride, all’alpinismo. Tutte discipline che pratico e che alla fine influenzano anche il mio modo di affrontare e interpretare il trail".

Hai mai pensato di fare un passo indietro e dedicarti solo alla strada?
"Si, ti dirò la verità: ci ho pensato. Mi sarebbe piaciuto provare a dedicarmi quattro anni alla strada e provare qualificarmi per correre la maratona Olimpica per capire a che livello sarei potuto arrivare. Ma alla fine mi piace troppo quello che faccio".

Sei stato sempre seguito dal tuo allenatore, Tito Tiberti, fin dal 2014. Quanto è importante il vostro rapporto? Quanto è importante avere un allenatore nel mondo del trail running?
"Quella dell’allenatore nel mondo del trail running è una figura un po’ sottovalutata. Il nostro rapporto si è evoluto molto negli anni. Sono stato io a scegliere lui. Ci conoscevamo già e volevo qualcuno con cui poter costruire un rapporto di fiducia. Ha cercato subito di creare in me una certa indipendenza nel gestirmi, motivo per il quale negli ultimi anni il nostro rapporto non è più stretto come un tempo. Ma devo ringraziare anche lui se sono riuscito a raggiungere determinati obiettivi. È stato bravissimo a strutturare la mia crescita sportiva in modo da non bruciare le tappe ma avere una crescita lineare".

Tra i tuoi successi tanti sono condivisi con i tuoi compagni di nazionale. Che rapporto avete? Com’è sentita la competizione tra di voi?
"Quelli con cui ho condiviso le prime esperienze in maglia azzurra, Cesare Maestri e Xavier Chevrier, sono i più importanti per me. Ci sentiamo quasi tutti i giorni. Siamo stati i primi a introdurre un nuovo modo di interpretare la corsa in montagna, che ha portato a tanti risultati positivi. Siamo una squadra. E anche quando andiamo all’estero a gareggiare singolarmente, ci sentiamo comunque un team. Quando invece gareggiamo in Italia, la competizione è decisamente più alta".

Dopo una lunga cavalcata durata cinque anni il 2021 è finito con un infortunio. Cosa è successo e come lo hai affrontato?
"Ancora non l’ho capito. Mi sono rotto il gomito due volte: la prima cadendo in bicicletta, la seconda dopo una caduta su sentiero, sempre nello stesso punto. Sicuramente è stata una buona occasione per fermarsi un attimo e riflettere su tante cose. È stata una situazione che ha messo in luce una serie di mie debolezze che avevo sempre cerato di nascondere, con le quali mi sono dovuto per forza confrontare e che mi ha permesso di conoscermi più a fondo".

Lo scorso novembre sei tornato e hai subito conquistato un oro e un argento ai Mondiali di short trail in Thailandia. Che significato hanno avuto?
In parte di rivalsa, per provare a me stesso che anche dalle situazioni peggiori si può sempre rinascere. In parte di condivisione, con i miei avversari, con i miei compagni e con tutte le persone che mi hanno aiutato a raggiungere quel traguardo".

A cosa punti nel 2023?
"L’idea è di allungare le distanze ed esplorare la scena ultra fino ai 60/70 chilometri, magari in una delle gare UTMB. A metà maggio sono tornato a Zegama, poi ci saranno i mondiali ai quali però non ho ancora deciso che specialità fare tra trail corto e corsa in montagna classica. Nella seconda parte dell’estate, la Sierre-Zinal, poi una gara del circuito UTMB e verso fine stagione una distanza più lunga".

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Gari Garaialde//Getty Images

Ultimamente si parla spesso di “super scarpe”. Cosa ne pensi?
"Riuscire a valutare quanto una scarpa possa influire nella performance in un trail è molto difficile. Sicuramente il beneficio principale dato dalle nuove mescole si può notare a livello di confort e ammortizzazione".

Quali sono i modelli che prediligi e che rapporto hai con le tue scarpe?
"Ho un amore dichiarato per le Nike Terra Kiger, ma dopo l’infortunio ho trovato un po’ più di sicurezza e comfort nelle Zagama, che utilizzo un po’ per tutto. Ultimamente utilizzo molto anche le Pegasus Trail 4. Su strada, invece, il mio primo amore sono state le Vomero. Ma la vera scoperta è stata la Invincible: con tutti e tre le versioni ho corso tanti chilometri a tutti ritmi possibili e il comfort e il feeling nell’appoggio è superiore a qualsiasi ad altra scarpa. Ed è anche performante. Se dovessi scegliere una scarpa che va bene per tutto sceglierei la Invincible 3. Ed è quella che consiglieri a qualsiasi amatore, sia per allenarsi, ma anche per correre in gara".

Insieme a Kilian Jornet e Pascal Egli hai fondato la Pro Trail Runners Association. Di cosa si tratta? E perché avete voluto creare questa associazione?
"È un’associazione no profit che vuole riunire gli atleti professionisti del mondo trail, in modo che possano essere uniti e avere una voce all’interno del mondo sportivo. Insieme abbiamo la possibilità di poter dire la nostra per quanto riguarda le competizioni, l’impatto ambientale, il doping e l’accessibilità al nostro sport. Questo progetto avrà sicuramente ricadute positive sia per noi atleti d’élite, sia per tutti gli amatori e appassionati. La nostra intenzione è quella di creare un terreno comune di discussione con brand, organizzatori, circuiti e associazioni, ciò che è mancato fino ad oggi".

Concretamente nel 2023 cosa avete intenzione di fare?
"Abbiamo già attivato quattro gruppi di lavoro. Uno che si occupa di antidoping e ha l’obiettivo di arrivare a stabilire test che vengano effettuati anche al di fuori delle competizioni e non solo nei circuiti più importanti. Il secondo gruppo, quello di cui faccio parte, si occupa di manifestazioni e calendari, con l’obiettivo di creare un programma coerente tra circuiti, federazioni e singole manifestazioni, in modo che non ci siano sovrapposizioni e le gare vengano distribuite in modo equo in tutto l’arco della stagione. Il terzo è un gruppo che si occupa di diritti, ad esempio per le categorie più svantaggiate o per le atlete donne, che dal punto di vista contrattuale spesso sono meno considerate rispetto agli uomini; ma anche per formare gli atleti stessi alla carriera professionistica. L’ultimo filone è quello ambientale, e si occuparsi dell’impatto che il nostro sport ha sulla natura soprattutto durante le competizioni".

Qual è il tuo rapporto con kilian? Cosa vi accomuna?
"Siamo atleti molto diversi. Io arrivo dall’atletica classica, mentre lui è un atleta che ha vissuto la montagna in tutte le sue sfumature. Per me è un punto di riferimento. Abbiamo un rapporto molto bello, ci siamo incontrati la prima volta una decina di anni fa e la cosa che mi ha colpito è che è stato lui a salutarmi per primo, cosa che dimostra quanto sia umile e rispetti i suoi avversari e quanto sia attento a quello che succede nel mondo trail. Ultimamente ci sentiamo spesso per gli impegni relativi all’associazione. Mi piace sottolineare il fatto che un atleta come lui, che non ha nulla più da chiedere a uno sport che praticamente gli ha dato quasi tutto, abbia ancora voglia di impegnarsi sia dal punto di vista agonistico che sociale per dare ancora di più".