«Lo faccio. Lo so che prima o poi lo faccio. L’ho anche detto al figlio di Edwards: il record di tuo papà ha i giorni contati..». Andy Diaz Hernández, campione del mondo indoor nel salto triplo, è la prova che si può essere simpatici anche senza nascondersi dietro la falsa modestia.
Jonathan Edwards è stato il primo uomo a saltare più di 18 metri: il 7 agosto 1995, quando atterrò a 18,29 sulla sabbia della pedana di Goteborg - lontano come nessuno ha più saputo fare -, Andy era ancora nel grembo di mamma Milagros. Sarebbe nato qualche mese dopo, il giorno di Natale.
La passione di Andy Diaz per la corsa e per i "balsi"
Quando Edwards lasciò le gare, dopo i deludenti mondiali di Parigi 2003, Andy muoveva i primi passi su un campetto di atletica a L’Avana."Mi ci aveva portato mia mamma per farmi sfogare - racconta -. Diciamo che ero un bambino un po’ agitato, non stavo fermo un momento. Lì ho scoperto la mia passione per la corsa. E per i balsi".
I balzi - balsi come dice lui in un perfetto italiano dalla cadenza sudamericana - sono quelli che gli avrebbero cambiatola vita: la Nazionale cubana, poi la fuga, l’arrivo in Italia, la nuova cittadinanza, la maglia azzurra, il record italiano, la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Parigi, il titolo europeo indoor in Olanda, quello mondiale in Cina.
Davvero hai detto una cosa del genere al figlio di una leggenda dell’atletica
"Sì, giuro. Io adoro la Formula 1 ed ero andato a Monza a vedere il Gran Premio. Lui mi ha riconosciuto e io gli ho detto del record. Si è messo a ridere, è stato un momento divertente".
Quindi stavi scherzando?
"Mica tanto. Io quel record lo farò davvero (ride)".
Torniamo all’inizio. Tua madre ti porta al campo e tu cominci a saltare. Quando hai capito che potevi fare sul serio?
"A me piaceva fare tutto, correre, saltare, lanciare. Però il triplo era una questione di famiglia: mio cugino, Osniel Tosca, era nella Nazionale giovanile cubana. Era forte: nel 2007 ha saltato 17,52. Ci ho messo un po’ per migliorare il record familiare, anche perché il sistema cubano è spietato. E non è che all’inizio tecnici e dirigenti credessero troppo in me: a quattordici anni mi hanno cacciato dalla scuola di atletica".
Perché? Che cosa avevi combinato?
"Niente, figurati. Mi hanno buttato fuori dalla scuola perché ero troppo basso".
Basso? La tua scheda sul sito della Federazione recita: Diaz Hernández Andy,peso 80 chilogrammi, altezza un metro e92 centimetri. Come potevi essere basso?
"Ero 165 cm, sono cresciuto dopo. Certo, mamma e papà erano alti e si poteva anche immaginare. Ma i tecnici non hanno avuto pazienza: poi sono rientrato, ma non è stato bello".
C’è un momento in cui ti sei sentito finalmente pronto per la grande atletica?
"Io sono sempre stato pronto".
Questa è una frase che ricorre nelle tue interviste. Come nasce questo mantra?
"È una cosa che ho sempre pensato. Me lo diceva mia mamma da piccolo: tu sei pronto a vincere perché hai vinto prima ancora di nascere. Eravate milioni di spermatozoi e tu sei arrivato primo".
A dirla tutta, quella gara lì contro gli altri spermatozoi l’abbiamo vinta tutti...
"Certo che sì, ma allora io ero un bambino: pensavo valesse solo per me (ride). Comunque, è una cosa che mi è rimasta dentro: sono pronto perché me lo sono guadagnato, perché me lo merito".
Parli spesso di tua madre. Che rapporto hai con lei?
"Sono riuscito a portarla qui dopo due anni dal giorno in cui le ho telefonato da Madrid per dirle che non sarei tornato a Cuba: ha pianto, ma ha capito che dovevo inseguire il mio sogno".
Quando hai deciso di lasciare Cuba haiscelto l’Italia, hai scelto Roma. Perché?
"Intanto perché c’era stata mia mamma e me ne aveva parlato benissimo. E poi perché volevo allenarmi con Fabrizio Donato. Lo avevo incontrato due anni prima, ai Mondiali indoor di Birmingham. Lui aveva 38 anni, io 23. Sapevo che aveva gareggiato fino ai 44. Nel triplo, capisci? Una specialità dove farsi male è facilissimo. Volevo essere come lui, non uno che vince una medaglia e poi sparisce per sempre".
Il rapporto di Andy Diaz con la corsa
Sembra tu vada pazzo per la carbonara...
"Sì, è buonissima. Non l’avevo mai assaggiata, ma è davvero un piatto pesante, mi avevano avvertito... Così mi sono ripromesso di mangiarla solo dopo una vittoria. Già sogno la prossima, a fine settembre dopo i Mondiali di Tokyo".
Perché li vuoi vincere, ovviamente...
"Certo. Mi alleno per vincere e voglio saltare più di 18 metri".
Qual è il tuo rapporto con questa misura? Sembra quasi un’ossessione...
"Lo è stata per un po’. Ora cerco di non pensarci troppo: in gara faccio una buona rincorsa, mi concentro sulla tecnica. I 18 metri prima o poi arriveranno: il mio corpo ce la può fare".
Che rapporto hai tu con la corsa? Dicono che ai saltatori correre piaccia poco...
"È vero (ride). Quando ero a Cuba non lo facevo mai, l’allenamento non lo prevedeva: solo forza e tecnica di salto. E infatti ero lento. Qui ho cambiato tutto: visto che il mio punto debole era la corsa, abbiamo deciso di puntare su quella. Corro ogni giorno: 150, 200, 300 metri. E all’inizio della preparazione ho corso anche 3 chilometri. Adesso sono molto più veloce, e la velocità serve per andare oltre i 18".
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